Ho conosciuto Ampelio Tettamanti quando ero ancora in fasce, nel senso che risale a quell’epoca e quindi ai miei mesi migliori, alla metà del 1949, il primo ritratto a matita che mi fece. Sicuramente ero in braccio a mia madre, che mi reggeva. Avevo i capelli lisci, lo sguardo stupito, ero infagottato da sembrare un’apina, una piccola ape, le manine al posto delle alucce. Quando la mamma mi metteva a letto, potevo vedere un attimo prima di addormentarmi i fiorellini e gli uccelletti che Tettamanti aveva dipinto sulla testiera laccata di rosa dalla cornice rosa antico. Forse i miei aspettavano un’altra femmina, dopo Gabriella, che era già grandina allora, come testimoniano altri ritratti di Tettamanti, lei con i capelli lunghi a boccoli, il gonnellino a pieghe, il collettino bianco… Ampelio Tettamanti con famiglia abitava come noi in via Mac Mahon, nella casa rossa a un passo dalla parrocchia di San Gaetano e dal Ponte della Ghisolfa sulla ferrovia. Mac Mahon come la Gilda, e mi sembra adesso impossibile ricordare Tettamanti senza un pensiero a Testori, perché le periferie, Roserio o Bovisa fa lo stesso, erano quelle nei primi anni Cinquanta: fabbriche, operai, artigiani, il tram, qualche negozio, nessun supermercato, biciclette, la motoretta dei più agiati, nessuna macchina, gli sbruffoni da biliardo, quello che voleva partire per la legione straniera, i tifosi dell’Inter, quelli che ancora discutevano di Coppi, l’oratorio e la sezione del Pci.
L’ultimo mio ritratto, a china, Tettamanti lo fece pochi mesi prima di morire: ho una gran testa di capelli ricci, sto appoggiato a un tavolo, il mento sulle mani incrociate, indosso la maglietta a strisce dei tempi.
Rovistando in internet, ho scoperto un altro ritratto: i volti di una bambina e di un bambino (nel sito Lombardia Beni Culturali, dalla collezione di Davide Lajolo), indicati nella scheda come “i figli dell’artista”. La bambina è davvero Silvana, la figlia di Ampelio e Ida, sua moglie, l’altro sono io, inconfondibile con il naso a patatina, felici, entrambi sorridenti. Sono orgoglioso della scoperta. Silvana e io giocavamo qualche volta insieme, ma lei era più grande dime e quindi preferiva altre amicizie e soprattutto “doveva studiare”, e un po’ mi intimidiva. Ma ci si trovava spesso difronte al grande cavalletto d’artista, arancione, macchiato qui e là di colore, con accanto un tavolino o un armadietto basso, sul quale Tettamanti stendeva la pittura a olio, che sgorgava densa e liscia dai tubi di stagno, spargendo quell’odore intenso, persino un poco afrodisiaco.
La casa studio era al quinto piano. Io stavo al sesto. Davanti a me sullo stesso pianerottolo viveva Ivo, il figlio dell’Adele: anche lei, bella, compare in numerosi ritratti (ad esempio Donna che macina il caffè, del 1946). Ripensandola e rivedendola adesso in quei quadri e in quei disegni, mi sembra che assomigliasse a Sofia Loren, nella parte però della casalinga di una Giornata particolare…
Allora in via Mac Mahon, al vottantott, cioè “all’ottantotto”, dove di tanto in tanto saliva anche Wanda Osiris per consultare una chiromante (lasciando l’autista in divisa e l’auto blu al marciapiede di fronte), le porte erano sempre aperte: noi bambini s’andava su e giù per le scale, in libertà, ma non si doveva far troppo rumore e ci era proibito il cortile, un cavedio che ci sembrava un quadrato oscuro, in fondo, con il profumo dell’umidità densa che risaliva i muretti bassi, attorno altre case come la nostra. Il Paesaggio urbano, un carboncino presentato ancora da Lombardia Beni Culturali, non è altro che quanto si vedeva dal balcone di casa Tettamanti, dal lato interno, verso la vera Bovisa: poco sotto correva il treno delle Nord, quello dei pendolari che scendevano alla Bullona.
Tettamanti ci ospitava sempre, tranne quando capitava da lui la “modella”, che doveva poi essere un’altra pittrice del suo gruppo, che gravitava attorno alla galleria d’arte divia Borgonuovo. Una volta mi presentai con una spada al fianco, un giacchino indossato su una sola spalla e un cuscinetto legato in testa, come fosse il colbacco degli ussari: ero un ussaro e credo che lui mi abbia ritratto alla maniera del Pifferaio di Manet e del principe Bolkonskij – era l’anno del film Guerra e pace e Nataša era l’incantevole Audrey Hepburn e lì nacque il mio amore, intatto per tutta la vita…A fronteggiare la mia bellicosa presenza c’era un altro pittore o uno scultore, c’era insomma un artista tra i tanti che frequentavano via Mac Mahon: Brizzi, Motti, Scalvini, il critico Raffaele (Raffaelino) de Grada, sentivo dire anche di Ernesto Treccani e di Mario De Micheli (le Avanguardie artistiche del Novecento fu il mio breviario nel corso dell’università).
Non ci può essere nulla di critico in un ricordo inevitabilmente toccato dall’affetto e dalla nostalgia, ma penso che quei ritratti siano ancora davvero belli (direi qualche cosa di più, ma temo l’iperbole): sono gli occhi che danno luce e la matita, la china, il pennello sembrano guidati dalla tenerezza, come se dovessero, anche attraverso lo sguardo di un bambino, liberare le speranze e la fiducia di un mondo. Di tanto in tanto sentivo dire dai miei: “il Tettamanti ha vinto un premio”. Probabilmente ne aveva vinto più di uno, ma mi aveva colpito quel premio in particolare, il Premio Suzzara. Mi aveva colpito perché, sempre i miei, dicevano che a Suzzara non distribuivano coppe, medaglie o soldi, ma piuttosto regalavano un asino o un maialino. Mi chiedevo allora dove Tettamanti avrebbe sistemato un asino o un maialino, visto che in casa aveva già la gatta Cirilla, assai grassa in verità. Un giorno avrei scoperto che il Premio Suzzara Tettamanti l’aveva vinto con un quadro che rappresentava operai scuri e muscolosi, con le maniche delle camicie arrotolate, i cappellacci in testa, braghe larghe, scarpe pesanti, gente forte in tuta da lavoro ritratta con colori densi, blu verde rosso, un po’ cupi, forse per restituirci il senso di pesantezza di quelle esistenze, sullo sfondo le fabbriche, ciminiere e tettoie. Camminano scrutando l’orizzonte, lasciandosi alle spalle fatiche e ingiustizie, e la loro è la marcia del popolo alla conquista del pane e dei diritti. Più tardi mi sarebbe capitato di pensare al “Realismo socialista”. Ma che importanza aveva allora il “Realismo socialista”? Quelle erano le nostre fabbriche, le nostre periferie industriali e le nostre campagne e quella era la nostra fede nell’avvenire e mi piaceva. La delusione, con la fine delle illusioni, sarebbe arrivata dopo quegli anni Cinquanta.
Un giorno l’intero caseggiato e forse tutta la via vennero a sapere che Ampelio Tettamanti sarebbe volato in Cina, per noi tutti il paese di Mao, il grande timoniere, e della via Canonica, perché via Canonica, a poche centinaia dimetri dall’Arco della Pace, era la via delle botteghe, dei magazzini e dei laboratori dei cinesi fuggiti dalla Cina che qui producevano e vendevano borsette e cravatte.
Non seppi molto allora di quel viaggio in Cina. Ma, dal momento che la televisione in casa non c’era – ancora oggetto di lusso –, dopo aver molto sentito di Mao, ebbi modo non solo di accrescere le mie nozioni sulla Cina ma anche di “vedere” la Cina, proprio grazie a Tettamanti, ai suoi leggeri disegni a china, come acquerellati, dal tratto lieve edalle sfumature tenui: quegli uomini sottili, con il gran cappello largo a cono, che con una lunga pertica muovevano sull’acqua piatta i loro barchini e, a riva, le loro casette coni tettucci che sembravano prendere il volo. Tettamanti non si era dimenticato di me e dalla Cina mi portò un gattino di pezza, che conservo ancora, giallo e nero, con gli occhi a mandorla, come è ovvio per un gatto cinese… Ci fu un altro regalo per noi, cioè per la famiglia: il disegno di un artista cinese, a noi sconosciuto (forse il nome stava nascosto in quei caratteri indecifrabili, messi in fila dall’alto verso il basso, a un lato del quadretto). Rappresentava un uccelletto con il becco all’insù, lo sguardo al cielo, perfetto nelle forme, nella postura, nelle proporzioni. Forse proprio quelle ombre di grigi e bianchi avevano conquistato il mio amico pittore. Molto più tardi mi resi conto che il viaggio in Cina di Ampelio Tettamanti, insieme con altri artisti come Agenore Fabbri, Giulio Turcato, Tono Zancanaro, Aligi Sassu, Antonietta Raphaël, aveva rappresentato allora, nel 1956,quando avevo appena sette anni, un autentico evento: una delegazione di artisti italiani, comunisti naturalmente, nella Cina Rossa di Mao, nel continente misterioso, nel paese della fame e delle carestie, della lunga marcia e dei “piani poliennali”, ben prima della rivoluzione culturale e di piazza Tienanmen, un universo intero prima dell’arrembaggio capitalista d’oggi. Era un viaggio nella storia, mentre la storia scorreva come il grande Fiume Azzurro. Sassu dipinse un gruppo di famiglia cinese alla maniera del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, con una bambina che si sporge avanti in un gesto quasi d’accoglienza…
Marco Polo, andata e ritorno, tra la Cina e la nostra Mac Mahon, in mezzo la Bovisa, cioè il nostro continente, a metà tra la fabbrica e la campagna, panorama surreale di gasometri, camini, capannoni dai tetti spioventi, mura di cinta in mattoni e fumi, che erano ancora quelli del progresso, del lavoro, della futura ricchezza. In casa c’è tuttora una tempera che ritrae quel mondo, tratti forti, colori nitidi, sintesi delle presenze monumentali che compongono quel panorama in geometrie, in corpi solidi essenziali: paesaggio dell’anima prima che della città, come se lì si volessero immortalare le glorie dell’industrialismo. Tutto finito: l’industria che non c’è più, la Bovisa che non c’è più, irriconoscibili quei luoghi, cancellati i fumi, i vapori, le scorie del ferro e del carbone.
Per me la Bovisa significava gioco: mi ci accompagnava la mamma che mi reggeva alle spalle mentre sulla biciclettina imparavo a pedalare, s’arrivava alle cave, dove le benne pescavano sabbia per la nuova città e sul fondo saliva l’acqua. Tra quelle più lontane poteva comparire un ardito pescatore, con le stesse sembianze di alcuni reduci che ancora si possono incontrare in cerca di rane tra le rogge alle porte di Milano, dove ai lati è un intreccio di foglie e di rami, di ortiche e alberelli dalla corteccia rivestita di muschio, in una densità che fa muro e il verde si insinua a macchie tra gialli, ocra, neri… Come negli ultimi quadri di Ampelio Tettamanti, quei dipinti a olio in cui la pennellata si stende sinuosa e fitta, allontanandosi dalla fedeltà realistica e oggettiva alla natura.
Una sera, direi d’inverno – così la ricordo, umida e nebbiosa–, tornavo a casa con la mamma e la sorella. La vita nel caseggiato non era più come prima: anche quella storia era finita, fu una delle prime vendite frazionate, la famiglia Tettamanti s’era trasferita in un appartamento più bello verso corso Sempione. Ho la sensazione che quella sera, era buio, avessimo incontrato Silvana e quasi quasi lei non ci avesse salutato. Poi qualcuno ci disse che Tettamanti era morto, ad Ancona, all’improvviso, troppo giovane per morire. Era il1961 e Ampelio Tettamanti aveva quarantasette anni.
Per anni la mamma di Ampelio, nonna Maria, venne a trovarci. Lei viveva in via Niccolini, noi finimmo in via Bramante. Ci raccontava del figlio, di Laveno, sul Lago Maggiore, dove l’Ampelio era nato, ci raccontava di un fratello che dipingeva le ceramiche. Forse da lì venivano il gusto, la passione, il talento di Ampelio Tettamanti. Che aveva cominciato prestissimo a dipingere (la prima mostra, dicono, fu nel 1937).
Non so niente di lui durante la guerra. So che ne uscì, come tanti, comunista, per ragioni semplici e ineludibili di giustizia. Di tanto in tanto i suoi disegni comparivano sull’“Unità”, per un Primo Maggio o per la Festa della donna. Non so neppure se fosse iscritto al Pci, forse sì. Frequentava un circolo popolare che si chiamava Mediolanun, che ogni anno organizzava un concorso di disegno per i bambini. Una volta arrivai secondo (so anche chi mi bocciò), un’altra fui riconosciuto come il più bravo.
Potrei dire ancora che Ampelio Tettamanti mi sembrava allora buono, generoso, dal sorriso sempre aperto, malgrado quei baffoni che potevano incutere in un bambino qualche soggezione. Giocava con me e mi faceva ridere. Mi piaceva stare a guardarlo mentre dipingeva, mi piaceva quando per gioco con la sua penna a china o con i pastelli mi disegnava il galletto che fa chicchirichì, i cow-boy, un piccolo naviglio, l’uovo di Pasqua. Lo penso sempre Ampelio Tettamanti, che rivedo attorno a me nei suoi disegni e nei suoi quadri: il ritratto di mia madre, un dipinto a olio con Gesù steso su un telo bianco tra le donne che lo piangono (mi hanno sempre raccontato che questo dipinto, firmato “A. Tettamanti”, mentre sul retro, sul telaio, si legge nella stessa grafia “Deposizione- Tettamanti Ampelio”, venne esposto alla Biennale di Venezia). Ancora un ritratto mio a olio, seduto su una seggiolina impagliata. Un altro a matita, bambino riccioluto e allegro, con una dedica: “Al ciccio. Tettamanti”…
Oreste Pivetta