7 maggio – 22 giugno
lunedì – venerdì: 9-12
lunedì 7 maggio
ore 18.00
Introduzione |
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Ci sono artisti che sono sempre collegati a una corrente, a una stagione, a un’epoca, anche se la loro arte va al di là di quei pur comprensibili e legittimi confini. È il caso di Ampelio Tettamanti.
Pensare alla sua pittura significa pensare al realismo sociale, di cui è stato un protagonista. Eppure negli anni più tardi
(prima di scomparire quando aveva solo quarantasette anni, nel 1961) aveva dato vita a un intenso ciclo di opere che guardavano all’informale, anche se muovevano sempre da uno spunto naturalistico. Vediamo però il suo percorso dall’inizio.
Tettamanti aveva esordito negli anni trenta con opere dove il disegno solido, volumetrico, si accendeva di un colore vivo ma non espressionista. Dopo aver studiato all’accademia di Brera, frequentando con fatica i corsi serali perché di giorno lavorava per vivere, si era fatto conoscere al Premio
Bergamo nel 1941, dove aveva esposto Il mio studio. Era un semplice interno (lo Studio, in realtà, era un angolo della sua casa), dominato da un quadro sul cavalletto: un “quadro nel quadro” dove tutto sembrava in attesa del pittore. Che non si vedeva.
Nella primavera del 1942, mentre è sotto le armi, Tettamanti viene ammesso alla Biennale di Venezia nella sezione delle Forze Armate, dove presenta una composizione di Reclute. In settembre torna a partecipare al Premio Bergamo, nell’edizione che vede schierato quasi tutto il movimento di “Corrente” e in cui Guttuso dà scandalo con la sua Crocifissione. Espone Interno, una composizione che richiama quella presentata sempre a Bergamo l’anno prima. Riprende ancora l’angolo della sua casa adibito a studio, ma con un senso dello spazio più nervoso e congestionato. In primo piano, su un tavolino che esce dai confini del quadro, c’è una copia di “Primato”, la rivista di Bottai: un omaggio al mensile a cui collaborava Guttuso e che era allora tra i più vicini alla pittura delle ultime generazioni. La prospettiva è irregolare: il tavolino è visto dall’alto, mentre il resto della stanza è dipinto, cézannianamente, da un’altra angolatura. Ne risulta un ambiente affollato, dove le cose si rubano lo spazio ed esprimono un disordine che non è un dato contingente, ma una metafora dell’instabilità del momento.
Un anno dopo l’artista tiene la prima personale a Milano, alla Galleria Borgonuovo, e il cronista del “Corriere della Sera” trova nei suoi quadri “una volontà, un’ansia di meditazione che hanno del religioso. Anche il Pollo pare un’offerta sacra”1. Non sbaglia di molto. La pittura di Tettamanti ha sempre saputo infondere nei suoi soggetti, anche nei più modesti, il senso di una dignità profonda, se non proprio sacrale.
Lo si vede nelle opere che dipinge nell’immediato dopoguerra, quando diventa uno dei protagonisti della rinnovata galleria Borgonuovo. Intorno alla galleria, che ora ha aggiunto il numero civico (il 15) al proprio nome ed è diretta da Giovanni Fumagalli, “il Fuma”, gravitano i realisti sociali come Brizzi, Scalvini, lo stesso Fumagalli, Antonia Ramponi, ma espongono anche Breveglieri, Meloni e artisti provenienti da “Corrente” come Cassinari, Birolli, Morlotti, Guttuso,
Sassu e altri.
Alla 15 Borgonuovo Tettamanti tiene una personale nell’aprile 1947 e partecipa a varie collettive. Negli stessi anni espone anche alla Bergamini che, dopo la chiusura nello stesso 1947 della galleria di Fumagalli, diventerà il suo spazio espositivo di riferimento.
Intorno al 1946, intanto, l’artista si avvicina al neocubismo, ma l’anno successivo torna a una figurazione naturalista, senza scomposizioni picassiane. Lo nota Borgese, critico poco amante delle avanguardie che, recensendo la sua personale nell’aprile 1947, scrive di lui: “Sembra stia versando molta acqua nel vino picassiano. Il colore diventa (o torna) tonale e soprattutto la grafia accademica del tardo cubismo cede a un’altra più semplice, naturale […] Questo giovane
è certo fra i nostri migliori”.2
Al di là delle metamorfosi dello stile, Tettamanti continua a dare alle sue figure (contadine che mungono le mucche e mondine che tornano dalle risaie; città dalle ciminiere fumanti e operai in cammino; donne assopite sul letto o al lavoro tra le mura anguste della loro casa) una dignità
silenziosa, senza cadere nella retorica di altri suoi compagni di strada.
Tettamanti è dunque un protagonista, e forse il maggiore, del realismo sociale milanese: un capitolo delle nostre vicende artistiche che, a distanza ormai di settant’anni, non andrebbe limitato all’ideologia che lo animava, ma ricondotto ai suoi valori espressivi, quando ci sono. Tuttavia, e torniamo all’incipit di questo scritto, l’artista non va circoscritto solo a quella stagione, perché nei tardi anni cinquanta abbandona il realismo e si esprime in un nuovo stile. Dipinge cioè un ciclo di Boschi che risentono del clima allora diffuso dell’informale, soprattutto di Pollock, di cui la Galleria del Naviglio aveva organizzato la prima personale
a Milano già nel 1950.
Si tratta di un’affinità solo formale, si intende. In Tettamanti l’intreccio di linee mantiene sempre un riferimento naturalistico: i suoi sono Boschi, appunto, grovigli di rami. Non esprimono il vagare senza meta della pittura che, non a caso, è stata chiamata “d’azione” e avvicinata alla filosofia esistenzialista. Nell’Action Painting l’opera non è più una rappresentazione ma un gesto, una testimonianza di esistenza. Per Tettamanti invece l’intrico dei rami da cui il chiarore filtra a fatica è ancora una metafora della difficoltà di vivere, degli infiniti grovigli dell’esistenza. Sono grovigli fitti, non privi di spine, dietro
i quali si intravede però una luce: quella luce che l’artista aveva sempre cercato di indicare, dipingendo le fatiche della vita quotidiana.
Elena Pontiggia