Cultura al Circolo | Fronde di solide radici
Circolo Bovisa – Via Luigi Mercantini 11 – Milano
dal 26 Aprile al 2 Giugno 2022
Il realismo della Bovisa
A cura di Giorgio Seveso
La pittura e l’arte sono da sempre strettamente intreccia-te alla dimensione urbana.
Da sempre, dal medioevo dei Comuni, dei quartieri e dei borghi che facevano corona alle cattedrali o ai ca-stelli signorili e, prima ancora, da Pompei e dalla civil-tà dell’antica Roma, dai greci, dagli assiri-babilonesi o dagli antichi egizi, in molti modi e forme e sotto ogni latitudine l’arte ha sempre accompagnato lo sguardo degli abitanti delle città, ha commentato e interpretato il loro immaginario, ha dato figure e segni allo sfondo visivo delle loro architetture e del loro quotidiano.
E da sempre gli spazi dell’abitare e del vivere, palazzi sfarzosi o miseri tuguri, mura consacrate o laiche su-perfici di tele o di mattoni hanno registrato la fantasia, i miti, le disperazioni e le gioie che nascevano dal po-polo.
Artefici di questa presenza sono gli artisti che, nelle va-rie epoche dell’umanità, hanno operato traendo spunti e ispirazioni dal visivo delle loro città, dai miti e dalle narrazioni che le abitano, dai climi umani che le defini-scono sia nelle profondità delle loro radici che a fior di pelle nei loro panorami più effimeri.
In questo nostro quartiere della Bovisa, città nella cit-tà, tra i molti intellettuali, poeti e artisti che l’hanno vis-suto e frequentato spicca la figura del pittore Ampelio Tettamanti. Il suo profilo – come vedrete – è l’indiscusso protagonista di queste pagine, presente in filigrana in ogni considerazione, iniziativa e programma che anti-cipiamo qui.
La sua è una pittura in cui si ritrova l’essenza stessa di ciò che si può chiamare il “realismo milanese”, cioè di una tendenza pittorica che, durante e immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, ha animato diver-si artisti che a Milano hanno operato e si sono mossi, ciascuno a suo modo, nel solco di una declinazione espressiva risolutamente figurativa e volutamente rico-noscibile, iconica, leggibile da tutti.
Una scelta formale, quindi, che aveva anche e soprat-tutto una valenza ideologica di fondo, cioè l’obbiettivo – certo più etico che estetico – di comunicare tramite le immagini con la più larga sensibilità collettiva e, nel contempo, di mai tradire le ragioni proprie della pit-tura, di mai venire meno alla sua specificità, alla sua ricchezza e alla sua autonomia con il volgersi verso il mero illustrativo, verso la “banalità” del vero per il vero.
Si è trattato, per questo, di una stagione molto signi-ficativa e ricca di vivaci elementi d’interesse culturale generale, storico e sociologico oltreché artistico.
Una stagione, inoltre, che è oggi ancora in gran parte da indagare e che a Milano ha presentato, a differenza di altre situazioni artistiche del Paese anch’esse rivol-te al realismo delle immagini, una marcata autonomia da un certo picassismo post-cubista che per alcuni era divenuto in quegli anni quasi una sorta di obbligata neoaccademia, più di moda che di sostanza ispirativa.
Di quella già lontana stagione, grosso modo tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso, assieme a Tettamanti e tra quanti possiamo oggi ascrivere senza esitazioni al realismo milanese di cui è questione, voglio ricordare pittori e scultori come Ciri Agostoni, Aldo Brizzi, Antonietta Ramponi, Giuseppe Scalvini, Giuseppe Motti, Luigia Zanfretta, Giovanni Paganin, Genni Wiegmann, Gabriele Mucchi, Ernesto Treccani, Giuseppe Migneco e, sul finire di quella stagione, gli allora giovani e giova-nissimi Giansisto Gasparini, Franco Francese e Bianca Orsi, tanto per citare qui le personalità più note e pur-troppo ormai scomparse.
Beninteso tutti (Tettamanti compreso) avevano poi visto nei decenni successivi evolvere anche radicalmente il loro linguaggio – e per alcuni anche la poetica, cioè il sentimento fondante delle scelte complessive – in direzio-ne di altre sponde e preoccupazioni.
E inoltre non erano stati i primi a sentire il richiamo di questi particolari panorami urbani, in testa a tutti, e ben prima della loro stagione, il grande Mario Sironi, che proprio alla Bovisa aveva trovato nei quadri giovani-li il senso di una desolata coscienza del vivere come metafora della condizione umana, ispirazione che non gli impedì poi d’aderire alla retorica fascista ma che la dice lunga sulla complessità dei giudizi da dare a poste-riori circa quelle che furono le scelte di alcuni.
Ma quel nucleo – dicevo – di particolare intonazione rea-lista, quel grumo d’innesco per il sentimento e di parteci-pazione profonda alla realtà delle cose e della città ha fatto in tempo a trasmettersi anche a una certa genera-zione successiva, formata da un gruppo di giovani che attorno alla metà degli anni 50 usciva dall’Accademia di Brera e che Marco Valsecchi in un articolo sul Giorno chiamò per primo, appunto, “realisti” ma anche “esi-stenziali”.
I quali giovani, partendo proprio da quell’ispirazione precedente, rilevandone in modi diversi l’ispirazione ideale, hanno poi declinato un loro linguaggio più in-teriore, più diaristico e psicologico, fatto di immagini slogate e impulsive, rotte di nebbia e di luci al neon, di scrosciare di tram e riflessi di vetrine e vetri infranti. Ma si tratta qui di un’altra storia.
La Bovisa inscritta nei disegni di Ampelio Tettamanti in mostra è davvero l’epifania del panorama di un quartie-re in rapida trasformazione, in una fervida apparizio-ne di fabbriche, cantieri e opifici al confine tra città e campagna, scanditi nella nitida figurazione geometrica e nel gesto perentorio di un pittore profondamente par-tecipe, profondamente impegnato.
Le immagini rendono un’atmosfera di appassionata condivisione della fatica e dell’alacrità del lavoro ma, nel contempo, sono caratterizzate da un silenzio quasi metafisico, da un’immobilità sospesa e contemplativa di intrigante qualità lirica.
Davvero straordinario questo suo silenzio visivo, senza increspature, senza echi, senza vibrazioni e tracce so-nore in lontananza.
Come fissati nella memoria, questi sobri scorci prospet-tici divengono quasi catalizzatori di una evocazione cui non si può sfuggire, richiamano senza sbavature né sussulti sentimentali la traccia netta del lavoro, il sol-co delle fatiche, l’impronta degli uomini, delle donne e dei bambini che stanno per rovesciare nuovamente il frastuono della loro vita nella quiete allucinata della composizione.
Ma ora, indagati dallo sguardo d’affetto e d’attenzio-ne dell’artista, i gasometri, le vie, gli spiazzi e i tetti, le ciminiere e le finestre mute restano quello che sono sul foglio o sulla tela: una visione precisa e meditata, l’espressione di un sentimento lirico della realtà, la sua essenza umana.
È la testimonianza di un gusto attento alla dimensione del reale (Tettamanti per il disegno lavorava quasi sem-pre dal vero, “au motif” come dicevano gli impressio-nisti) nel pieno di una pratica neorealista del cinema, della letteratura e dell’arte, di una cultura che reagiva in quegli anni in modo affermativo agli orrori della guerra appena terminata e rispondeva al vento di radicale tra-sformazione democratica e di sviluppo economico che scuoteva il Paese e in particolare Milano.
La pittura, in tutte le stagioni, si è mostrata certo il me-dium più adeguato per descrivere la percezione della realtà da parte dei contemporanei, per enumerare le sue contraddizioni e le irrazionalità, i suoi terribili e meravigliosi paradossi, le sue speranze, disperazioni, utopie e distopie.
Ma la pittura appunto è anche la più dilatata tra le defi-nizioni del reale, frantumata e demoltiplicata com’è sui centomila versanti del visivo.
E allora, per renderla più prossima, più vicina alle no-stre distrazioni, c’è chi è tornato a usarla come uno stru-mento, un utensile capace di scorticare la nostra pigri-zia e le nostre abitudini.
E così, appunto, l’ha usata il nostro Tettamanti, per re-spingere ogni superfluo edonismo e decoratività pur possibili nel lavoro d’artista, porgendoci queste sue im-magini come antidoto alla tossicità che si deposita e si accumula nelle coscienze.
Dunque, proprio come degli anticorpi di liricità attenta, umana, affabile; come una sorta di “vaccino” della per-cezione e dell’immaginazione appaiono queste figure della Bovisa di oltre mezzo secolo fa e che pure ci sem-brano ancora così sode e autentiche, così incise nella memoria del quartiere, nel genius loci del suo passato e del suo presente in trasformazione.
Cos’è difatti la vaccinazione se non la definizione di una sostanza che inibisce e rende innocui batteri dan-nosi, microbi e virus pericolosi?
Nei termini propri alla pittura e alle arti del visivo ecco allora che questi suoi lavori reagivano – e ancora aiuta-no a reagire – alla seriosità fastidiosa e supponente di alcune sedicenti avanguardie, ieri come oggi più inna-morate di una loro ansiosa ed effimera febbre di appa-rire che della loro reale sostanza culturale.
Un poeta veneto scomparso ormai da decenni, Romano Pascutto, ha scritto una volta questi versi:
Forse perché so cosa costa il pane / ho paura delle parole sovrapposte alla crosta della verità, / che è dura e avara, piena di sudore e di dolore. / Essere poeti, in fondo, altro non è / che essere uomini senza pudore. (da “La crosera de i zìngani”, Vangelista editore, Mila-no 1974).
Ecco, anche Tettamanti con il suo lavoro non sovrappo-neva parole alla crosta della verità.
Sempre, invece, la sua verità d’immagine si è mostrata secca, perentoria, “senza pudore” nei confronti della propria intensità lirica, degli sguardi d’affetto e di do-lore, di affettuosa constatazione delle cose della vita rivolti al mondo reale che lo ha circondato.
Una verità semplice, essenziale, se vogliamo anche tal-volta elementare, ma completamente autentica e sobria, senza sovrastrutture, senza interpretazioni né forzature artificiali, senza sovrapposizioni.
Passione e Realtà
di Giorgio Fiorese
Negli Anni ottanta dell’Ottocento Bovisa nasce sia per le ferrovie, sia per l’attività di Giuseppe Candiani e del-la sua fabbrica chimica, tra le prime al mondo nella produzione di acido solforico; al suo stabilimento, poi, se ne affiancano altri, meccanici o legati alla chimica. È un centro pressoché “solo” produttivo, con pochissi-me abitazioni. Definirla “periferia” è riduttivo, dato che un Annuario d’industria di fine 800 la definisce piccola Manchester.
Tettamanti (1914-61) abita in via Mac Mahon 88, al 5° piano; cioè nella stessa via della Gilda testoriana, nei pressi del Ponte della Ghisolfa e a poche centinaia di metri dalle Officine del Gas.
È tra i fondatori del gruppo neorealista milanese.
Per lui, dire Bovisa vuol dire lavoro; e dire lavoro vuol dire “dalla parte degli operai”: molta parte della sua opera figurativa si basa su questi due assiomi.
Mai avrebbe rappresentato gli operai come gli “ultimi”; non è mai retorico.
Qui, oltre a un paesaggio di Bo-visa, mi limito a proporre solo al-tre quattro opere. Nel 1950, per la campagna elettorale, il Partito Comunista gli commissiona un manifesto. Lui, invece di disegnarlo, lo compone con due foto: da-vanti una famiglia, genitori e bimba in braccio ai due, affiancati dal nonno barbuto; sullo sfondo, gli impianti del gas di Bovisa, riconoscibilissimi.
Sotto lo slogan: Per l’Italia/ Per un avvenire di pace e di progresso/ per la felicità della tua famiglia/ Vota Partito Comunista Italiano.
Poi un noto disegno, esposto per decenni nella sede del PCI di via Volturno. Raffigura un operaio in tuta, con una bimba attaccata al braccio, mentre con la moglie legge “l’Unità”; è appena uscito dalla fabbrica, visibile sullo sfondo ed è affiancato da altri operai, a piedi e in bici.
A questo accosto il dipin-to forse più noto, perché premiato al Concorso di Suzzara: qui gli operai sono cinque e pure loro escono da una fabbri-ca sullo sfondo. Come nel disegno precedente, camminano con passo sicuro, calmi e sereni. Certo: sentono che il fu-turo è loro.
Ancora un disegno di grande bellezza che rappresenta, in modo che fatico a ritrovare in altri artisti, la condivi-sione, la solidarietà umana. C’è una contadina, ferita a un piede e con il viso sofferente, sorretta da due compagne corpu-lente come lei, viste di schiena. I tre corpi oc-cupano la quasi totali-tà del foglio e le tre te-ste sono disposte ad arco. Opposto a que-sto arco emerge l’uni-co viso, della quarta compagna, straordina-riamente espressivo: dolore, preoccupazio-ne, angoscia.
Al lavoro di Tettamanti ritengo utile accostare quello di Ernesto Trec-cani (1920-2009), più giovane e con una vita più lunga. Sono en-trambi comunisti, seb-bene, dalle biografie, non emerga una loro frequentazione parti-colare. Per un periodo non lungo, va rimar-cata sia la vicinanza nella particolarità del-le tematiche, sia la dif-ferenza delle modalità espressive.
Treccani abita in Cen-tro città e nel 1953, dopo aver visitato la periferia parigina, frequenta Bovisa, in particolare le vie Gianpietrino e Pacu-vio, che delimitano l’area dei gasometri. Da lì fotografa le Officine del gas, coi gasometri e le ciminiere che li affiancano; poi fotografa anche il Ponte della Ghisolfa. Non dipingendo dal vero, per comporre le sue opere si affida alla ripresa fotografica, più funzionale alla sua poetica. Quelle su Bovisa, che conosco, sono senza figure e di puro paesaggio, con una notevole padro-nanza dei colori, dove – come nei lavori di Tettamanti – spiccano le ciminiere.
Ma c’è un secondo motivo di accostamento tra i due artisti, entrambi, oltre che milanesi, “bovisaschi”; riguar-da una fase successiva della loro attività artistica. Nel 2018, grazie alla Mostra Grovigli, allestita pres- so l’Università Bocconi e curata da Elena Pontiggia, ho avuto modo di conoscere le ultime opere di Tettamanti, dedicate a raffigurazioni della natura. I “grovigli” che, oltre che naturali e verdi, sono fitti, non privi di spine, dietro i quali si intravede però una luce: quella luce che l’artista aveva sempre cercato di indicare, dipingendo le fatiche della vita quotidiana [Pontiggia].
Anche Treccani, da fine 50, raffigura il verde: cespugli, vegetazione, prati (rimando a internet per le opere). È come se i due, insieme, ci dicessero “non credendo più nella storia, ci rifugiamo nella natura eterna”.