Ampelio Tettamanti al Premio Suzzara
Nel settembre del 1965 veniva inaugurata a Suzzara, in occasione della diciottesima edizione del Premio d’arte che ogni anno animava la cittadina mantovana, una mostra antologica postuma dedicata ad Ampelio Tettamanti. Il pittore era venuto a mancare pochi anni prima ma, come sottolineava il critico Mario Monteverdi, che firmava il testo in catalogo significativamente titolato Ritorno a Suzzara di Ampelio Tettamanti, il suo ricordo era più vivo che mai. “Ampelio Tettamanti – scrive Monteverdi – fu tra i più assidui ed entusiasti partecipanti al Premio Suzzara, ed anzi v’è da pensare sia stato il pittore che vi conseguì il maggior numero di riconoscimenti, ivi compreso il massimo nel ’55: siamo certi che se egli fosse ancora tra noi, continuerebbe, con quella sua umanità che s’accompagnava ad impareggiabile modestia, ad onorare la manifestazione che segna l’incontro tra l’arte e il lavoro” (1).
Il sodalizio che lega la pittura di Ampelio Tettamanti alla storia del Premio Suzzara fu così forte da rendere oggi quasi impossibile parlare dell’artista senza citare la manifestazione. “[…] si potrebbe senz’altro asserire – osserva ancora Monteverdi – che Ampelio Tettamanti potrebb’essere assunto quale simbolo del Premio Suzzara in quanto ne rappresentò lo spirito e gl’ideali, ne tradusse in eloquenti termini visivi i programmi e gl’intenti”.
Solo dieci anni prima del ricordo di Monteverdi, nel 1955, ecco Ampelio Tettamanti posare a Suzzara in una foto d’epoca insieme alla moglie e a un contadino mentre accarezzano la criniera di un puledro. Il puledro è il primo premio della celebre competizione artistica nata nella cittadina mantovana e giunta ormai alla sua ottava edizione. Lo scatto è il fermo immagine di un’epoca che racchiude simbolicamente la storia certamente utopica e sorprendente di questo Premio. Una storia che si intreccia in maniera imprescindibile con le vicende politiche e culturali di quegli anni e con l’intensa stagione artistica del Realismo italiano. La prima edizione del Premio si era svolta nel 1948, anno in cui entrava in vigore la Costituzione italiana e in cui il Paese sfiorava la guerra civile per l’attentato del 14 luglio al segretario del Partito Comunista Palmiro Togliatti. Erano stati Dino Villani, pubblicitario ed esperto di comunicazione, insieme a Tebe Mignoni, l’allora sindaco di Suzzara, a dare vita a una manifestazione che differiva per originalità da tutte le altre competizioni artistiche sorte in quegli anni. Il clima del dopoguerra faceva nascere un po’ ovunque la voglia di ricostruire attività e iniziative culturali che erano state cancellate o stravolte durante il periodo fascista e il Comune e l’amministrazione di Suzzara avevano appoggiato da subito e con entusiasmo l’idea di questo evento, che avrebbe portato nella piccola cittadina della campagna mantovana una sferzata di novità, dando risonanza nazionale alle istituzioni locali. È lo stesso Villani a ricordare con queste parole le origini del Premio: “Pensai ad un Premio d’Arte, ma poiché scarseggiavano i mezzi, esso doveva in parte ottenere finanziamenti esterni. Abbozzai uno schema nel quale era prevista l’istituzione di un Premio artistico da parte di contadini e operai, i quali avrebbero messo a disposizione prodotti del loro lavoro in cambio delle opere d’arte che una commissione avrebbe prescelte” (2).
Il Premio nasceva dunque da subito con questa particolarità: il lavoro artistico sarebbe stato scambiato con i prodotti del lavoro della terra. Le opere presentate dovevano raffigurare “ritratti di lavoratori, ambienti di lavoro, paesaggi con vedute di fabbriche o cantieri, di campagne lavorate, nature morte con strumenti di lavoro”. E i premi messi a disposizione per i vincitori sarebbero stati un vitello, un puledro, un maialetto, forme di formaggio, vini, prosciutti e altri prodotti della terra. Le mani dei lavoratori tornavano simbolicamente a essere equiparate a quelle dei pittori. Per stringere ancora di più questo sodalizio tra arte e lavoro nella giuria figuravano tra gli invitati, insieme a giornalisti e critici d’arte, un contadino, un operaio e un impiegato. E infine lo slogan, anima di tutta la manifestazione, inventato da Dino Villani: “Un vitello per un quadro, non abbassa il quadro: innalza il vitello”.
Nell’introduzione al catalogo della prima edizione del Premio Suzzara nel 1948 (non a caso fatto stampare su una rustica carta di paglia, quella usata dai macellai e dai formaggiai per incartare i loro prodotti) Cesare Zavattini scriveva: “Questo premio che Dino Villani ha inventato e che i Suzzaresi faranno prosperare tra le loro braccia generose, è il più bel premio del mondo, concreto, allegro, pieno di speranza. Verrà un giorno, infatti, in cui ogni uomo avrà un quadro o una statua nella sua casa, perché sarà scomparsa la paura che divide dall’arte i poveri, i contadini, gli umili” (3).
Ecco tracciato il successo di un evento che per diversi anni portò l’attenzione dei principali giornali e i nomi dei più importanti artisti italiani a passare ogni anno per il piccolo comune del Mantovano. Il format, come diremmo oggi, era vincente. Non si poteva non amare un Premio così spontaneo, che aveva prima di tutto il sapore della festa di paese. “Si tornava all’antico cambio merci che, in fin dei conti, è un cambio di sentimenti dato che ciascuno, nel proprio lavoro, colloca qualcosa del proprio cuore, della propria anima, della propria assiduità a quella cosa spiritualmente preziosa che è il lavoro. Per questo chi ama il lavoro, amò questo semplice Premio […]: lo amò perché esso è emblematico di una sola passione: il lavoro che si identifica con la poesia della vita” (4).
Il mito del lavoro e la semplicità dei premi contribuirono a creare un nuovo più stretto rapporto con il pubblico dell’arte, che finalmente poteva sentirsi vicino all’industria culturale dell’epoca. E lo scambio tra i prodotti del luogo offerti dai contadini suzzaresi e le opere d’arte, che rimanevano così proprietà del Comune, permise di costituire a Suzzara una Galleria che forse ancora oggi è l’unica in Italia a documentare così bene e in maniera così originale le vicende storico-artistiche alla metà del XX secolo. La stagione d’oro del Premio Suzzara fu infatti quella compresa tra il 1948 e il 1956, quando in Italia si sviluppò l’intensa stagione del Realismo e arte e schieramento ideologico trovarono in alcune personalità terreno fertile per fruttuosi scambi. Una di queste figure fu appunto quella di Ampelio Tettamanti, la cui vicenda artistica e biografica si inserisce perfettamente in questo limite cronologico.
Il rapporto di Tettamanti con il Premio Suzzara ebbe inizio nel 1950, anno della sua prima partecipazione alla terza edizione dell’evento artistico con l’opera Miniera di marmo, una scena di lavoro in una cava di marmo. Già nel 1951, l’anno seguente, l’artista riusciva ad aggiudicarsi una pompa centrifuga con un’opera che rappresentava delle mondine in una risaia. Un tema tipico del neorealismo italiano, declinato in infinite rappresentazioni come un vero e proprio topos ricorrente. Scorrendo i titoli delle opere in catalogo di questa IV edizione del Premio Suzzara sono numerose le donne in risaia e le contadine in riposo o al lavoro. Intorno agli anni Cinquanta infatti, il problema delle dure e inumane condizioni lavorative diventa, nel quadro delle lotte contadine del dopoguerra, una questione largamente affrontata con toni di denuncia da artisti, letterati e uomini di cultura in generale (basti ricordare le molte canzoni popolari dedicate alle mondine e il celebre film di Giuseppe De Santis Riso amaro del 1949). Sono tanti gli artisti che si recano a dipingere direttamente nelle risaie. Tra questi anche Tettamanti, che insieme a Tono Zancanaro ed Ernesto Treccani (la testimonianza è dello stesso Treccani nella sua raccolta di memorie dal titolo Arte per amore (5)) nel 1953 trascorse nelle risaie di Roncoferrato, nel Mantovano, la stagione della monda e del taglio dipingendo e allestendo alla fine del soggiorno una esposizione nelle aule della scuola comunale. Era proprio questa la modalità di fare arte che il Premio Suzzara privilegiava in quegli anni, e da varie voci sulle riviste dell’epoca e sui cataloghi critici si andava elogiando una pittura che guardava alla realtà senza nessuna lente deformante.
Il Realismo in arte sceglieva la via di una narrazione quasi epica rappresentando la fatica di contadini e operai, il sudore dei braccianti e le loro lotte (occupazioni delle terre, scioperi e manifestazioni). Il tutto raccontato con un linguaggio figurativo che obbediva alle caratteristiche di massima leggibilità e comprensione per le masse popolari. A dare voce alle ragioni ideologiche e artistiche del movimento, nel 1952 nasceva il mensile di arti figurative “Realismo”, che fece subito da cassa di risonanza anche per le vicende del Premio. Proprio sulle pagine di uno dei primi numeri si legge: “Nell’osservazione della realtà, la vita del nostro Paese e della sua gente, con i suoi problemi, le sue lotte e le sue gioie, i pittori di Suzzara hanno trovato un carattere proprio, popolare e italiano. Essi formano ormai larghissima scuola, che non è una scuola ma piuttosto un costume” (6). In questo “costume”, Ampelio Tettamanti e la sua pittura si inserivano perfettamente. L’artista divenne amico personale degli organizzatori del Premio e ogni anno le sue opere erano di casa a Suzzara. La sua fu una partecipazione sincera e vivace che colse pienamente lo spirito della manifestazione. Negli anni scelse con accuratezza i suoi soggetti, dai Pescatori del 1953 alla mondina (questa volta ripresa in un attimo di pausa dal lavoro) dell’opera Sosta del 1954. Nel 1955, come già ricordato, Tettamanti si aggiudicò a Suzzara il primo premio con l’opera Operai di Milano. Dopo cinque anni di partecipazioni assidue il pittore scambiava la sua tela con l’ambito puledro vivo e scalpitante. Con le loro forme salde e plasticamente individuate, alcuni operai escono da una fabbrica della periferia milanese. L’opera, un vero e proprio pilastro del Realismo più sincero, traduce l’atmosfera particolare di quegli anni, tipica dei sobborghi delle città industrializzate dove le fabbriche si accostano alle case coloniche e i silos e i gasometri convivono con i campi incolti. Sono i luoghi delle officine di Porta Romana descritti nei quadri di Boccioni ma anche gli ambienti in cui si muovono, finiti gli anni Cinquanta, i personaggi cinematografici di Visconti in Rocco e i suoi fratelli. La periferia, in particolare quella della Bovisa, sarà un tema più volte ricorrente nei lavori di Tettamanti. Come scrive bene Mario Monteverdi: “Per un decennio circa (dal ’49 al ’59), Ampelio Tettamanti elaborò il suo realismo a stretto contatto con l’umanità di ogni giorno, coi suoi problemi piccoli e grandi, e con gli ambienti nei quali detta umanità trascorreva la propria vita e subiva il proprio destino: la drammatica periferia industriale della metropoli, l’incombere dei gasometri e delle fabbriche, il breve, lirico respiro di un parto superstite o della proda verdeggiante della ferrovia ai lati del cupo antro di un sottopassaggio. La Bovisa fu per Ampelio Tettamanti come la foresta di Fontainebleau per i pittori en plein air di Barbizon, come Argenteuil o Bougival per Monet e Sisley, come L’Estaque per Cézanne: il potenziale e segreto dramma che vi si celava, ne generò la poesia” (7).
Ed è infatti la periferia ciò che forse colpisce di più in questa opera del pittore: le figure sono state aggiunte in un secondo momento rispetto al paesaggio, i volti rimangono abbozzati ma ciò che riesce a connotare meglio le vite e le vicende lavorative di questi uomini è proprio la descrizione, sullo sfondo del quadro, dei luoghi in cui ogni giorno agiscono e si muovono. Tettamanti ama profondamente la periferia dove è di casa (lo studio dell’artista si trovava in via Mac Mahon, non lontano dal quartiere Bovisa). Lo testimoniano ancora oggi i disegni di gasometri e gli scorci di paesaggi di questa mostra milanese. Soprattutto però ama le persone che abitano questa periferia. Le studia e le frequenta con assiduità obbedendo a quello che Renato Guttuso indicava in questi stessi anni come compito della pittura moderna: andare “a scuola dalla classe operaia”. Proprio qui, nella conoscenza di questi Operai di Milano si esplicita il nodo che unisce in maniera univoca la pittura di Ampelio Tettamanti, il Premio Suzzara con il suo tema vincolante legato al lavoro e il Realismo italiano. Nessuno più di questo artista ha tenuto fede alla religione realista e all’utopia di un’arte in grado di entrare nelle case di tutti (come auspicava Zavattini nel testo citato in precedenza) e di raccontare la realtà e la quotidianità dei lavoratori. Tutta la vita e la ricerca artistica di Tettamanti fu infatti intesa nel senso che la manifestazione suzzarese indicava in maniera paradigmatica: “arte come lavoro, lavoro come arte” (8).
Senza tracciare una storia completa delle vicende del Premio, tra alti e bassi, fortune critiche e difficoltà organizzative, basterà indicare che con la discesa della parabola realista in Italia, anche la forza del Suzzara iniziò a scemare. Già dal 1956 la partecipazione di Tettamanti al Premio passa in secondo piano nella vicenda artistica del pittore, che continua comunque a parteciparvi fedelmente ogni anno con le sue opere. L’ultima premiazione importante (una macchina per scrivere messa in palio dalla Olivetti e un assegno di cinquantamila lire) sarà per l’opera Donna che macina il caffè nel 1958. Una scena apparentemente serena, idilliaca, di tranquillità famigliare che già testimonia quella nuova ricerca di temi più intimisti e personali propria degli artisti che lentamente uscivano dal dominio dell’arte realista.
Nel giugno del 1961 Ampelio Tettamanti muore ad Ancona alla giovane età di quarantasette anni. La vicenda dell’artista a Suzzara si chiude pochi anni prima. Nel 1959 il Premio si svolgeva ancora “normale come la vita”, come notava il titolo della presentazione in catalogo fatta dall’onorevole Teodosio Aimoni, presidente dell’Amministrazione provinciale di Mantova. “Normale come la vita, necessario come il lavoro, il premio torna ogni anno come tornano le stagioni con la continua, vecchia e nuova, vitalità del lavoro umano” (9).
Eppure Paesaggio di fabbriche e Donna che cuce furono gli ultimi dipinti portati a Suzzara da Tettamanti. Con queste due opere si chiudeva la breve ma intensa storia dell’artista nella cittadina mantovana e il Premio stesso, come in un nodo biologico, entrava in una nuova età, meno fortunata e brillante. Non mancherà di sottolinearlo sempre Mario Monteverdi, scrivendo: “[…] quando all’improvviso, il 18 giugno 1961 ad Ancona, dove si trovava per un concorso di pittura, un minuscolo grumo sanguigno arrestò implacabile il corso di quella breve e intensa vita d’artista, anche sul Premio Suzzara calò un velo […]” (10).
Il Premio Suzzara continuerà fino al 1976 pur perdendo, di anno in anno, l’incisività e la forza con cui era nato. A testimonianza della sua stagione fortunata rimangono le opere ancora oggi conservate nella Galleria del Premio.
Tra quelle di Ampelio Tettamanti ve ne è ancora una che può raccontare moltissimo dell’arte di questo pittore. La mungitrice è l’unico suo disegno presente nella raccolta di Suzzara; le altre sei opere dell’artista di proprietà dell’ente sono tutte condotte con la tecnica dell’olio su tela. Eppure, anche nelle sue ridotte dimensioni, essa è fondamentale per capire una parte importante dell’arte di Tettamanti. Forse è infatti nei disegni che si esprime al meglio la sua personalità. Proprio come questa mostra milanese organizzata a Palazzo Morando sembrerebbe indicare e come sosteneva già nel 1953 il critico Raffaele De Grada, scrivendo in occasione di una mostra di disegni dell’artista alla Galleria Bergamini.
Il disegno era per Tettamanti il mezzo più pratico e veloce per appropriarsi della realtà che osservava nelle sue spedizioni tra campi e periferie, ma anche nei suoi viaggi (quello in Cina del 1956 insieme a una delegazione di artisti italiani legati al Partito Comunista Italiano come esempio su tutti). Con i loro schizzi, alcuni pittori, e anche Tettamanti, offrivano il proprio contributo di militanti al giornale di partito (“l’Unità”) e a periodici di propaganda politica come “Il Calendario del Popolo”. Ma il disegno era anche un modo per molti artisti della sua epoca per ribadire la distanza da un’arte astratta e informale che stava nascendo. Un nodo teorico su cui Ampelio Tettamanti, come gli altri della sua generazione, aveva riflettuto a lungo. A un foglio di carta autografo egli ha consegnato il suo pensiero in merito, appuntato con l’incisività di un aforisma: “Il disegno è lo scheletro dell’artista, ossia patente di nobiltà dell’arte stessa”.
Rosa Carnevale