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11 novembre 2016

Il disegno poroso. Ampelio Tettamanti e il pittoresco urbano nella Milano che cambia

L’attenzione di Ampelio Tettamanti per i luoghi di una Milano che nell’immediato dopoguerra stava radicalmente mutando è, per molti aspetti, premonitrice di un interesse culturale ampio ed estremamente fecondo che fra gli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta sarà terreno comune negli immaginari di Testori, Bianciardi, Visconti, Antonioni, solo per citarne alcuni.

Milano ha visto repentini cambiamenti politici, sociali ed economici tra la fine del XIX secolo e la seconda guerra mondiale eppure, paradossalmente, le sue identità multiformi rimangono ancorate, fino alla metà del Novecento, a una forma di città definibile su matrici insediative storicizzate che, da dentro le mura spagnole, si espandono sul sedime di un progetto urbano ancora chiaramente univoco. Una città compatta, benestante, che poco prima dei grandi cambiamenti del “secolo breve” si avvia ad assomigliare sempre più alle grandi capitali europee. Una città con confini precisi, oltre i quali ancora negli anni Dieci è riconoscibile il tessuto del paesaggio agrario lombardo, rimasto immutato per secoli.

Il disegno di Tettamanti, anche più della sua pittura, è lo strumento per la scoperta, per la messa in immagine, di quei nuovi territori nati dalla spinta industriale e dalle mutazioni sociali che fanno di Milano l’epicentro del boom italiano fra la fine degli anni Quaranta e i Sessanta e che ancora, sbadatamente, ci capita di definire “periferie”. Fra i margini slabbrati della nuova industrializzazione cresce la pressione di popolazioni immigrate, le trasformazioni degli spazi sociali e urbani sono repentine: l’aspetto di Milano sta cambiando, ma ancora in pochissimi sono in grado di cogliere le relazioni fra le evoluzioni economico-sociali e gli immaginari, nuovi paesaggi che sono parte del mosaico frammentario di una città che “le vicende storiche” hanno portato “a essere una inesauribile divoratrice di se stessa”, per dirla con Primo Moroni (1).

Tettamanti disegna, ostinatamente, decine di ritratti di città del tutto estranei alla tradizione iconografica milanese, è alla ricerca di qualcosa che dia forma al cambiamento, scava senza sosta dentro e attorno alla Bovisa, quartiere che più di ogni altro gli trasmette la forza inesorabile delle energie ancora parzialmente sotterranee da cui nascono segni che diventeranno imprescindibili nel racconto della città nuova: dalle ciminiere all’endoscheletro dei gasometri.

Prima che Giovanni Testori faccia di questa parte della città il teatro dei suoi personaggi più incisivi, e Luchino Visconti ne tragga il suo capolavoro, Rocco e i suoi fratelli, Tettamanti è impegnato in una serie di operazioni di traduzione in immagine dominata dalla durezza del segno, dalla sperimentazione di un tratto irrequieto, marcato, volutamente ridotto a taccia. Non casualmente l’artista predilige la china su carta, il carboncino, riducendo progressivamente il colore a elemento di contrasto; le geometrie del paesaggio urbano si trasformano in sistemi giustapposti di parti la cui unità è data, univocamente, dallo sguardo, dal punto di vista dell’osservatore.

Molti anni più tardi sarà un noto architetto e accademico statunitense, John Hejduk (2), a reinterpretare la coralità di elementi dissonanti della Bovisa provando a costruire una curiosa tavola sinottica delle forme, diventate archetipi visivi astratti, da cui trarre ispirazione per ipotizzare futuri scenari urbani e architettonici, operando una dissezione di ciò che Tettamanti aveva amalgamato in un immaginario univoco.

Se, come sostiene Lucie K. Morisette citando André Corboz, “il n’y a pas de ville sans imaginaire de la ville” (3), il lavoro di Tettamanti è doppiamente importante: costruisce un primo, forse il primo, vocabolario visivo di riferimenti identitari della Milano mutante nel contemporaneo e, in secondo luogo, ci aiuta a chiarire l’importanza del disegno come atto critico, disvelativo, selettivo, dentro a una realtà urbana che le semplificazioni o riduzioni estetiche spesso non sono in grado di decifrare.

In questo senso leggere attraverso la matita di Tettamanti il contesto di Bovisa nel pieno della sua trasformazione è più che mai utile per superare un inefficace e spesso fuorviante concetto di periferia. Il luogo delle metamorfosi sociali, economiche e urbane è in realtà l’opposto del periferico, è il cardine, il centro vivo delle mutazioni nei modi di descrivere Milano, è il laboratorio da cui derivano immaginari che non hanno solo il pregio di rendere visibile ciò che accade, esattamente mentre accade, ma costituiscono un caposaldo per l’innovazione nei modi di conoscere e capire le dinamiche vitali di una grande città, ben oltre qualunque cliché estetico o estetizzante.

I disegni di Ampelio Tettamanti rappresentano per Milano la forma visiva sperimentale di un modo di guardare le città che si fa pienamente maturo nell’elaborazione contemporanea: lo spazio fisico dell’urbano non può più essere oggi, in alcun modo, il sistema consolidato della città antica, compatta, racchiusa. L’eterogeneità diventata tratto distintivo, rimane difficile da conoscere, difficile da tradurre in immagine: “In realtà lo sguardo contemporaneo non è più rivolto alla città tradizionale, né alla metropoli moderna, ma a quell’estensione di case unifamiliari, edifici industriali, centri commerciali, parchi scientifici, centri del divertimento, strade, svincoli, parcheggi, depositi, aree agricole, vecchi villaggi e brani di periferie ormai storiche che prende ormai il nome di città territorio, città regione, città diffusa, Middle Landscape, rururban/rururb?” (4).

Eppure la trasformazione dei paradigmi interpretativi non può prescindere dalle forme plurime del racconto, dai linguaggi con cui gli specifici fatti urbani vengono rappresentati, ed è qui che il disegno acquisisce un ruolo fondante per superare trame ricorrenti di messa a sistema e razionalizzazione forzosa dell’informe, dell’incompleto, del mutevole che la condizione urbana spesso incarna.

La Bovisa anni Cinquanta di Tettamanti è il luogo molteplice di possibili inattese combinazioni materiche e visive, è uno spazio corale quanto mai distante dalla stratificazione storicizzata, che non permette più allo sguardo di cercare, e trovare, interstizi inattesi per radicarsi. È proprio quel “non-caratterizzato” che con grande chiarezza Walter Benjamin ha descritto nelle sue Immagini di città: “Dappertutto si conserva lo spazio vitale capace di ospitare nuove, impreviste costellazioni. Il definitivo, il caratterizzato vengono rifiutati. Nessuna situazione appare così com’è, pensata per sempre; nessuna forma dice di se stessa ‘così e non altro’ ” (5). I piani visivi sovrapposti delle fabbriche, dei gasometri, delle ciminiere con cui Tettamanti compone il suo orizzonte ridefiniscono il tema di un personalissimo pittoresco urbano rendendo possibile ciò che Benjamin attribuiva solo alle fortune del forestiero: “Lo stimolo superficiale, l’esotico, il pittoresco agisce soltanto sul forestiero. Perché un nativo giunga a rappresentare l’immagine di una città occorrono motivi diversi e più profondi. Motivi che inducono a viaggiare nel passato anziché in luoghi lontani” (6). La sintesi visiva del disegno urbano pone l’artista, e il fruitore dell’opera, in una duplice condizione di straniamento: quella sincronica del forestiero, di chi vede, percepisce, per la prima volta; e quella, diacronica, della discontinuità dei tempi, in cui la contingenza del cambiare genera continue interazioni fra il presente e il passato.

“Chi descrive la propria città”, ci ricorda Peter Szondi, “dovrebbe dunque intraprendere un viaggio nel tempo, e non nello spazio.” (7)  Tettamanti opera con grande attenzione sul disegno dello spazio architettonico, modulando la molteplicità di forme, geometrizzando e sistematizzando, ricreando un ordine a volte metafisico che ha la grande capacità di non negare gli aspetti irrisolti e dissonanti di una Milano soggetta a spinte spesso prive di alcun controllo. Tettamanti ci consegna, in realtà, un insieme visuale fedele a uno degli aspetti più tangibili della periferia industriale milanese moderna: la porosità. Caratteristica che, ineluttabilmente, diventerà una delle chiavi di lettura più efficaci della città contemporanea.

La città compatta, autoreferenziale, unicum conoscibile e rappresentabile è il luogo della sua stessa morte simbolica, della fine dell’urbano, come ci ricorda un profetico disegno di Man Ray datato 1938 e intitolato Les derniers hommes sur terre. La città novecentesca si dispiega nella molteplicità dei passages, degli interstizi, del continuo ribaltamento delle categorie estetiche, e anche in questo la città torna a essere potentemente pittoresca: “La dissimmetria e la varietà, l’irregolarità, l’insolito, l’intrico, la materia grezza, i valori tattili, diventano qualità estetiche del pittoresco. Il pittoresco è inclusivo, incorpora allo sguardo il paesaggio circostante; accetta l’espressione individuale; cancella la tradizionale distinzione tra naturale e artificiale. […] Ciò non deve portare a leggere la città contemporanea come un semplice accostamento di elementi inconoscibili ed estranei, ma deve costringerci a definire una strategia in grado di utilizzare, trasformare, trarre vantaggio da questa eterogeneità: questa strategia è quella del pittoresco. Accettare l’eterogeneità della città contemporanea, non è semplicemente un fatto estetico, ma politico, sociale, etnico” (8). In questa stretta correlazione fra fatto estetico, politico e sociale, Tettamanti, seguendo la sua forte spinta etico-politica, sembra aver colto e anticipato l’intreccio complesso che lega i fatti urbani ai destini delle popolazioni; gli interstizi e le porosità al radicarsi di una socialità nuova che spazializza la propria identità in una città che il disegno non stigmatizza, ma spiega, e che oggi più che mai abbiamo bisogno di tornare a osservare con occhi disincantati.

Daniele Villa

Tratto dal Catalogo della mostra “15 paesaggi umani Ampelio Tettamanti e Milano” – Nomos Edizioni

Note
(1) Primo Moroni, Milano, istruzioni per l’uso, in Il discorso dei luoghi. Genesi e avventure dell’ordine moderno, a cura di Ida Farè, Napoli, Liguori, 1992, pp. 313-335, cit., p. 314. › 22 23.

(2) John Hejduk, José Rafael Moneo, Bovisa, Cambridge (Mass.)- New York, Harvard University, Graduate School of Design-Rizzoli International, 1987.
(3) La Ville phénomène de représentation, a cura di Lucie K. Morisette e Marie-Eve Breton, Presses de l’Université du Québec, Montreal, 2011, p. 36.
(4) Mirko Zardini, La città, l’urbano, il pittoresco, in “Iride. Filosofia e Discussione Pubblica”, a. XV, 2002, n. 2, pp. 355-360, cit. p. 357.
(5) Walter Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 2007?, p. 13.
(6) Walter Benjamin, Il ritorno del flaneur, in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, Torino, Einaudi, 1993, p. 468.
(7) Peter Szondi, Postfazione, in Benjamin, Immagni di città cit., p. 135.
(8) Zardini, La città, l’urbano, il pittoresco cit., pp. 359-360.